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Cura di Sè

Abbracciare l'incertezza

 

A cura di Dott. Fabio Artigiani, Counselor, Educatore e Formatore

Come è possibile abbracciare, quindi un gesto d’amore, una delle cose che più ci desta apprensione, specie in questi tempi di pandemia e guerra, come l’incertezza?

Il termine ed il concetto di “incertezza” nella nostra cultura acquisisce spesso un’accezione negativa, legata ad una situazione di ansia o di stress. Questa concezione è probabilmente figlia della nostra attitudine culturale alla performance, alla visione per cui sei di successo e forte se non sei insicuro. In un’intervista l’attrice Francesca Neri, autrice di un libro sul suo calvario di salute avuto in questi ultimi anni, diceva: “io non sono debole, sono fragile”, intendendo sottolineare che la fragilità non è sintomo di debolezza, se la sai vivere. E a questa ho legato un’altra citazione dalla canzone “L’altalena” di Nicky Niccolai: “e la mia fragilità è un equilibrio in più”.

 Fragilità e ricerca di nuovi equilibri 

A causa della pandemia e della guerra in Ucraina tutti noi abbiamo avuto davanti agli occhi la fragilità dell’umanità di fronte ad un microscopico essere vivente e di fronte ai giochi di potere: questo ha messo in luce le nostre difficoltà ad affrontare situazioni del genere. Perciò è fondamentale, per riuscire ad abbracciare l’incertezza, cioè una condizione di fragilità, a comprenderla come momento di “equilibrio in più”. Ma come si fa?

Ci è utile tirare in ballo il concetto di “pensiero dualistico”.

Quando pensiamo alle cose che ci circondano, o alle persone, o a noi stessi, tendiamo a categorizzare a coppia: uomo-donna, buono-cattivo, natura-cultura, mente-corpo, innato-imparato, individuale-collettivo, vax-novax, gioia-dolore, ecc.

Questo pensiero dualistico viene da lontano ed è stato la soluzione ai dilemmi filosofici, sociali e scientifici, risultato di processi storici e culturali.

Il pensiero dualistico è una tendenza che abbiamo in Occidente e che ci ha portato ad organizzare il mondo in modo che possa essere suddiviso in due categorie fondamentali, ognuna delle quali è relativamente indipendente. Da un lato ci sarebbero la mente, le idee e la razionalità e dall'altra il materiale, il visibile, il concreto.

Questo pensiero dualistico è noto anche come cartesiano, il famoso "cogito ergo sum" (penso dunque sono): indica che la mente e la materia sono entità separate e che quella materia può essere conosciuta attraverso il pensiero razionale e il linguaggio logico matematico.

Molto vicino a questa tendenza (e quindi al modo di fare scienza e ai nostri pensieri e pratiche) è la moderna filosofia occidentale della tradizione cosiddetta “razionalista”, che si basa sulla convinzione che l'unico o il principale modo valido per conoscere oggettivamente il mondo è quello basato sul ragionamento logico.

Il pensiero dualistico, fondamentalmente razionale, ha segnato in modo importante lo sviluppo della scienza moderna. Separare le cose e spiegarle in un binomio, però, semplifica enormemente la nostra conoscenza del mondo, così come le nostre possibilità di azione e interazioni; oltre a ciò opera sulla base di relazioni di potere spesso disuguali.

Il problema in sé non è pensare a coppie, ma che le due componenti sono quasi sempre disuguali in termini di dominio. Il pensiero dualistico perciò non è solo a livello mentale, ma genera relazioni, soggettività, forme di identificazione e interazione con il mondo e con le altre persone.

La questione attuale in molti contesti, specialmente nelle scienze umane e sociali, è come uscire dal pensiero dualistico per generare alternative di relazione e di identificazione, per mettere in discussione l'eccessiva razionalità della modernità che causa spesso effetti negativi sulle relazioni interpersonali e nella costruzione delle nostre identità.

Creiamo costantemente muri di pensieri dualistici dentro e fuori di noi.

Come possiamo trovare un’alternativa al pensiero dualistico?

Sembrerebbe una cosa impossibile: come è possibile non categorizzare? Visto che il pensiero dualistico è fondamentalmente di origine Occidentale proviamo a gettare uno sguardo ad Oriente. Nella visione della Mindfulness, che è la versione occidentalizzata della filosofia buddhista tibetana, scevra dei suoi aspetti religiosi e rituali, esistono la coscienza, quindi il soggetto che esperisce, e il mondo degli oggetti dei sensi, ovvero cose, persone, suoni, odori ecc. che sono i trasduttori del nostro esperire. Il sorgere delle concettualizzazioni dualistiche è legato agli oggetti dei sensi, inclusi altri esseri senzienti.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che i nostri sensi sono strutturati per accendere illusioni dove concettualizzo, ragiono categorizzando ogni pezzo della realtà che ho intorno secondo l’ottica del pensiero dualistico.

Per riuscire a superare la visione dualistica, occorre attaccare e mettere in difficoltà il più possibile la nostra visione egoistica, cioè basata sull’ego (sul penso dunque sono), su una visione antropocentrica del mondo, sul "desiderare desiderare desiderare, sull’io voglio, sull’io ho diritto a". Questa stagione pandemica prima e di guerra poi stanno lì a gridarci di smetterla.

Ma come facciamo a mettere in crisi il nostro io e a restare “uniti”, a non sprofondare nello smarrimento?

Secondo l’ottica Mindfulness gli elementi fondamentali sono sei: terra, acqua, fuoco, aria e lo spazio, inteso come etere, come luogo capace di accogliere qualcosa (elementi naturali). A questi va aggiunta la consapevolezza (elemento non naturale).

Un individuo non è l’insieme di questi elementi, ma non esiste senza di essi.

Cosa vuol dire allora“essere un individuo”?

Un individuo non è mai auto esistente, oggettivamente esistente, ma esiste in inevitabile interdipendenza con una mente che lo pensa, che lo etichetta, compresa quella dell’individuo stesso. Non esiste una versione univoca di noi, ma molteplici versioni come molteplici sono le menti che etichettano con un nome l’insieme dei sei elementi fondamentali che costituiscono un individuo. Senza l’etichetta, però, l’insieme degli elementi non costituirebbe un individuo soggettivamente pensato.

Ma assumere questa prospettiva non basta per riuscire ad abbracciare l’incertezza.

Occorre anche interiorizzare l’impermanenza, cioè il concetto che ogni cosa inizia e finisce, ma anche che ogni fine è un inizio e ogni inizio è una fine.

L’incertezza è prodotta da un dubbio e, come ebbi a scrivere qualche tempo fa, “il dubbio è come l’ombra di un albero in piena estate”, cioè una fonte di riparo, in cui stare lì, senza dover far niente, in cui rilassarsi un po’. Un’ombra è nostra alleata, quindi il dubbio lo è, quindi l’incertezza lo è: non dobbiamo averne timore, lasciarci spaventare da questo o viverlo come una debolezza. Il dubbio, l’incertezza, per fare un'altra metafora, è la china del monte sul quale ci muoviamo: se decidessimo di stare più in basso staremo solo da una parte o dall’altra del monte, non vedremmo più la totalità del panorama ma solo metà, solo alcune cime. Perdiamo la possibilità di avere una visione d’insieme, più chiara, più gratificante, più utile alla comprensione di ciò che accade fuori e dentro di noi.

E’ anche vero che stare sulla china del monte potrebbe farci pensare: “e se cado? Non starei più al sicuro più in basso?”. Ma se stai sul sentiero, se non ti fai distrarre dai tuoi sensi, dal lavoro dispendioso ed inutile del cercare l’oggettività rassicurante in ogni cosa, quando tutto è soggettivo, non potrai mai cadere. D’altronde anche il domandarsi “e se cado?” è un dubbio, è un’incertezza e quindi non è male farsi via via questa domanda: sarebbe anzi poco vantaggioso non farsela, perché così ci costringiamo a guardare dove mettiamo i piedi, per poi, però, rispondersi che possiamo tranquillamente riuscire a stare sul sentiero in sicurezza.

"Se viviamo quindi l’incertezza in questo modo è più facile che ci venga voglia di abbracciarla come un’amica preziosa, un’alleata, una consuetudine."

 

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